“Lo chiamavano Jeeg Robot”, parliamone

di Cristian Mariani

 

“Lo chiamavano Jeeg Robot” non è solo un ottimo film, nitida fotografia senza filtri né ritocchi dello spaccato sociale della criminalità del “Bel Paese”, non è solamente l’ennesima trasposizione cinematografica de “L’eroe dai mille volti”, studio di mitologia comparata e di teorie psicoanalitiche di Joseph Campbell, nella quale il protagonista percorre il suo arco evolutivo per giungere alla completa illuminazione della propria natura, ma soprattutto non è la consueta pellicola fatta di eroi crepuscolari mossi da misteriose esigenze di vendette e da ricordi brucianti di tramontati amori.

Lontano dagli déi muniti di tutina attillata e colorati gadget dello Star System americano, la nuova genesi degli eroi italici si dipana attraverso una ridefinizione della socialità marginale posta nei sobborghi capitolini tra disoccupazione ed alienamento, tra carenza culturale e totale abbandono del senso estetico.

L’eroe riplasma se stesso in virtù di un vissuto che non disconosce ma che si fa fonte di ispirazione e metro di paragone. Attraverso di esso sarà spinto ad accettare al proprio fianco l’impalpabile ombra della malattia mentale della donna che scopre di amare. E sarà proprio questo disagio e l’improbabile fuga dalla realtà che conseguentemente porta con sé a delineare che il suo presente e l’immediato futuro siano un salto, un salto nel buio, nel vuoto, nel destino solo in apparenza definito e definitivo.
Un salto come nella scena finale del film quando l’eroe si lancia dalla struttura evocativa e a suo modo mitologica del Colosseo al calar delle oscure tenebre.

Se la Marvel e la DC Comics fanno dei propri eroi arrampicatori da grattacielo o pipistrelli volanti, i nostri richiamano gli “anime” nipponici del genio creativo di Gò Nagai e la giocosa età della fanciullezza quando di fronte al pericolo imminente e all’incombere dell’ignoto potevamo tutti trasformarci in…Jeeg Robot d’acciaio.

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